due segretucci (in vista del voto)

Segreto n.1- Io quando vado a votare mi commuovo, intendo proprio lungo il percorso che faccio da casa mia al seggio. A me piace molto camminare, in due ma forse ancora di più da sola: quando ho letto la biografia di Jobs, praticamente l’unica cosa che mi è stata simpatica di lui, oltre al fatto che era vegetariano, era che faceva lunghe passeggiate con i suoi collaboratori per prendere alcune delle decisioni più importanti. La trovo una cosa estremamente sana e saggia, per dire.

E così il giorno del voto mi piace mettere in tasca la mia tesserina elettorale piena di timbri e avviarmi con calma verso la scuola. E faccio sempre gli stessi pensieri: quando ho votato l’ultima volta, quando la prima (1994: mia mamma piangeva, non dico altro), cosa è cambiato nel frattempo nella mia vita, cosa no. E poi parte la vena lirica e penso a quanto è bello quello che sto facendo, a quanto è importante e fico che siamo tutti usciti di casa per fare la stessa cosa, e guardo gli altri e in alcuni casi basta un’occhiata per capirsi, per dirsi “Ragazzi, speriamo” e ci si sorride tra sconosciuti di età e estrazioni diverse, ma col medesimo pensiero.

E poi penso (non chiedetemi perché ma va così), penso alla guerra, ed è a questo punto di solito che mi commuovo, che mi vengono gli occhi un poco lucidi, penso a come molte cose siano ancora tremendamente radicate dentro di noi e a come però riusciamo a gestirle pacificamente, democraticamente (a parte sani istinti assassini verso i colleghi fascisti); e qui passo, in modo sempre ciclico e uguale, al pensiero dei limiti, dei confini sottili del vivere civile, e un poco mi spauro e un poco mi smarrisco.

E poi però mi ritrovo, mi metto in fila, appongo le mie ics, esco dal seggio, vedo persone che so, che sento, che hanno votato sbagliato, che pensano sbagliato, e capisco d’un tratto che, come quasi sempre, perderò queste minchia di elezioni di merda e torno a odiare tutto e tutti e prendo una strada con poca gente perché voglio stare sola.

Segreto n.2- (Da cui si capisce perché mi commuovo) Stiamo parlando di una, io, che ha tenuto un diario segreto per un sacchissimo di anni, scrivendoci le più inutili banalità del modo per la maggior parte del tempo, ma che lo inaugurò con una frase di cui vado orgogliosetta ancora adesso:

“Mi chiamo Clotilde Troll, ho 11 anni e vivo in un Paese libero”.

Niente di meno. (Ai tempi avevo già assunto Anna Frank, Un sacchetto di biglie, Le vetrine illuminate e Quando Hitler rubò il coniglio rosa, e si sentono tutti).

Che dire? Ragazzi, speriamo.

 

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il primo ballo. l’ultimo

Sono alle medie e non sono una delle più carine. Lo sono stata a sprazzi alle elementari, lo sarò dopo il ginnasio, ma alle medie no: in quegli anni lì sono una di quelle invisibili, una di quelle ragazzine che non hanno la minima idea di come sistemarsi, di come mettersi e di cosa pensare davvero. Mi piace ancora giocare a bandierone in giardino, detesto fare pallavolo con le altre femmine epperò, anche se mi scoccia ammetterlo anche solo con me stessa, ho la rabbia verso una mia amica perché a lei son già venute le sue cose e a me no e penso che lei abbia un dolce segreto e io no.

Perché le cose devono cambiare? Vanno bene così, accidenti. Perché le cose ancora non cambiano? Non voglio restare indietro.

C’è da dire che un ammiratore ce l’ho comunque: lo sfigato maximo della mia classe, Nicola Ombato, che, poveretto, parte male già dal cognome poco eufonico. Si è preso una cotta per me in prima e la cosa mi rompe moltissimo perché:

1- che il peggio elemento della classe debba venire dietro proprio a me, è altamente dequalificante

(una volta l’aveva addirittura scritto in un tema io da anni sono innamorato di Clotilde Troll, così, letterale, con nome, cognome e drammatica specifica temporale spatafiati sul foglio consegnato senza timore alla Tanzi, la prof di italiano che, ridandoci i compiti, se ne era uscita con un sibillino “E noto con piacere che stanno sbocciando i primi amori”: ne era venuto fuori un bordello, con l’Adriana, la mia compagna di banco, che aveva capito al volo chi avesse scritto cosa ed essendo una spanna più alta di Nicola e di molto più forte, gli aveva strappato il tema davanti a tutti e posto nelle mie mani le righe incriminate, come orecchie di drago da attaccare al diario per lavare l’onta che lui avesse osato dire in pubblico la sua passione per me. Io quella volta mi ero sentita un po’ in imbarazzo, per la verità, perché il gesto della mia amica era stato davvero esagerato e umiliante, ma, oh, alla fine la colpa era di Nicola che non avrebbe dovuto permettersi di venirmi dietro, ecchecavolo);

2- mi dà fastidio questa cosa di essere vista come una femmina: io sono io, mica una di quelle smorfiosette che si truccano e si guardano allo specchio tutto il tempo. Con un’unica fondamentale eccezione: mi guardasse in quel modo anche solo per un microsecondo Andrea Tulli, che mi piace moltissimo, sarei in paradiso, ma il Tulli dagli occhi verdi e il viso grazioso frequenta la Claudia Ferrari, la biondina più carina della scuola, una che si mette il rossetto e le gonne e i vestitini della Naj Oleari. Quella piccola troia, come la odio.

Anche io e l’Adriana però siamo una bella coppia: ottimi voti e caratteri complementari, lei capetta indiscussa delle femmine, io suo moderato braccio destro. Siamo anche molto amiche dei maschi, a differenza delle altre: lei perché è vicina di casa di un paio di loro, io perché sono l’unica a non far religione e non faccio religione insieme a Matteo Bucci, con cui siamo stati anche in banco insieme in seconda.

Io però sono più brava di lei in italiano: la Tanzi ogni volta chiama fuori i due migliori a leggere ad alta voce il proprio tema e io sono sistematicamente una dei due.

All’inizio odiavo questa cosa: per me che sono timidissima, stare in piedi davanti a tutti a leggere le robe mie era un vero supplizio, ma poi avevo cominciato ad accorgermi che i miei temi non piacevano solo alla prof, ma anche agli altri: quando uscivo capivo che stavano ad ascoltarmi, sentivo il loro silenzio e, se qualche volta trovavo il coraggio di alzare gli occhi, li vedevo che non stavano scrivendo bigliettini scemi, o finendo il problema di mate, o disegnando con l’uniposca sul banco, ma che stavano seguendo le mie parole. E questo mi era di grosso orgoglio.

Facevo temi a volte seri, ma più spesso buffini, in cui raccontavo le cose buffine che mi capitavano e che magari capitavano un po’ meno agli altri, come prendere l’aereo, andare in giro con una macchina con la targa del Kuwait, ricevere in regalo una pallina da un famoso giocatore di golf, allevare un cucciolo di merlo caduto dal nido, cose così.

Un giorno faccio un tema su Agassi: io gioco a tennis e a casa ho due album pieni delle sue foto ritagliate dal Tennis Italiano che compro ogni mese. Mi piace tanto tanto ed è in finale al Foro Italico, ma la partita viene clamorosamente disturbata da un elicottero che gira di continuo sul campo e Agassi si infastidisce, si deconcentra e rischia di perdere, ma lui è bravissimo, bellissimo e simpaticissimo e vince.

Appena finisco di leggere l’ultimo issimo accade una cosa: dal fondo dell’aula si sente una voce che dice “Povero Andrea”.

Due parole e poi il silenzio. Un silenzio solo un poco diverso dal silenzio di prima. Non so chi sia stato ma mi sembra di aver capito bene quello che ha detto. Sbatto gli occhi, faccio finta di niente, finisco di leggere e me ne torno a posto. Intanto mi chiedo se ho davvero sentito quello che credo di aver sentito: Andrea? Andrea! Ma cosa? Come? Si fosse trattato di un povero Nicola avrei anche capito, ma povero Andrea? Sono scossa. E poi, a pensarci bene, la voce sembrava proprio quella di Nicola. Per fortuna che sono gli ultimi minuti dell’ultima ora e me ne posso andare via in fretta.

Ci rimugino su per tutto il pomeriggio, possibile che. Possibile che io. Possibile che io piaccia. Ad Andrea? Maddai. Non scherziamo.

Vabbè, stare nel dubbio non si può mica, però non ho il coraggio di chiedere all’Adriana se ha sentito anche lei, non mi va di farle capire che sono completamente in subbuglio, nessuno sa che mi struggo su tutte le foto delle varie gite che abbiamo fatto in questi tre anni in cui c’è Andrea: ufficialmente a me piace Luca Boeri, che è il secondo nella lista dei due che mi piacciono, ma siccome non mi piace poi così tanto non ho problemi a dirlo in giro, invece Andrea è una cosa completamente diversa, una cosa solo mia.

Lascio passare qualche giorno fino a giovedì, che è quando io e Matteo non facciamo religione e stiamo un’ora con l’onnipresente Tanzi a fare educazione civica.

Mentre torniamo in classe e siamo da soli, gliela butto lì “Oh, ma l’altro giorno mentre leggevo il tema, hai sentito cos’ha detto Nicola?” “L’hanno sentito tutti, Andrea voleva picchiarlo” “Ah, perché?” Matteo esita per un attimo, è amico di Andrea ma anche mio, vedo che non se la sente di dirmi una balla “Tu gli piaci” “Ah”. Faccio finta che vada tutto bene, entro in classe e filo al mio posto. Fa caldo.

E poi, poi non succede nulla: Andrea non mi telefona a casa, non mi invita a fare l’intervallo insieme, non arriva in classe con enormi mazzi di rose e non mi si inginocchia davanti, davanti a tutti, come vedo chiaramente nella mia testa ogni sera prima di addormentarmi. Però non lo si vede più in giro con la Claudia Ferrari e io son tutta contenta e per la prima volta mi guardo nello specchio del bagno e mi sistemo un pochino i capelli.

Solo due settimane dopo, alla festa di fine anno un pomeriggio a casa della Adri, mi chiede di ballare insieme e balliamo insieme una canzone di Eros Ramazzotti e Patsy Kensit che, a sentir lei, si intitolerebbe “La luce puòna dele stèle”. Ma c’è poco da far la spiritosella perché quello è un primo ballo sì, ma anche un ultimo: siamo in terza, a settembre andremo in licei diversi, abitiamo lontani, le nostre mamme non si conoscono e tutto, ma proprio tutto congiura a separarci.

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romanzi ragazze facili quattro per

Colpa di quella stupida copertina acchiappacitrulle: tutta rosa e ricamata, come fai a non prenderlo in mano, dico io? Come, come?

E infatti lo prendi dallo scaffale e, se sei come me, t’immagini come minimo sia fatto apposta:  involucro lezioso e ridicolo a contenuto ovviamente antitetico e spaccagambe.

Poi leggi la prima riga e capisci che no, proprio no, antitetico un par de palle.

Indi per cui avvampi un pochino, (benché tu sia in una Mondadori in cui nessuno ti conosce -e già il fatto di essere in una libreria di un centro commerciale, mhmh- moriresti piuttosto che dare l’idea di essere una lettrice di Harmony o Kinselle varie), lo riponi velocemente e vai spedita verso la N della tua amatissima, e per fortuna assai prolifica, Némirovsky.

Poi però. Poi però finisce che quel libro, per cause indipendenti dalla tua volontà e che non staremo qui ad indagare, quel libro, dicevo, finisce per intrufolarsi in casa tua. Sulla tua scrivania. Sui tuoi scaffali. Sozzo libercolo per ragazzine giocatrici di Barbie. Messo sotto ad appunti, cartelline, liste della spesa, pentole, no pentole no, ma penne, borse, device Apple di varia natura, qualsiasi cosa insomma, pur di celarlo in qualche modo allo sguardo.

E resta così per tre mesi. Mesi in cui un pochino ti senti in colpa, perché è un regalo e sai, fortemente sai che dovresti deciderti a, e allora di quando in quando ci riprovi, riparti e ogni volta oddio oddio ma che orrore, ma come si fa, ma come si può e bon.

Fino a che. Fino a che un giorno sei annoiatissima e assai più mogia del solito: lo riprendi in mano, per l’ennesima volta, e ti costringi con le unghie e con i denti ad arrivare almeno a pagina 50, ad affogare definitivamente nella melassa.

E visto che, ripeto, mi piacciono i finali tristi ma solo per fiction, ovviamente vien fuori che è tutta un’altra cosa: una storia a suo modo nera e super avvincente, scritta in modo buffino e con un sacco di avanti e indietro che ti menano gentilmente per il naso. Morale, ti leggi quelle 370 pagine in molto meno di 24 ore.

Applausi. Applausi. Fine.

Ah, il libro si chiama La sonnambula e l’autrice Essie Fox.

[Per la pruriginosotà di alcune scene mi ha ricordato Il petalo cremisi e il bianco di Michel Faber, quello della prostituta dalla pelle squamosa: siccome anche io spesso ho le mani ruvidine, mi sono sempre identificata molto nella cara Sugar. Cof.

Per la preponderanza del personaggio femminile mi ha riportato invece ad Ambra di Kathleen Winsor: librone magnifico, polpettone indimenticabile. Da wiki: “Quattordici stati americani (negli anni ’40) vietarono il libro perché pornografico. Il primo fu il Massachusetts, il cui Procuratore Generale, per giustificarne il divieto di diffusione, citò 70 riferimenti a rapporti sessuali, 39 gravidanze illegittime, 7 aborti, e 10 descrizioni di donne nude poste di fronte a uomini.” Bho, io tutta ‘sta ciccia per la verità non me la ricordo, ma dev’essere senz’altro una mancanza mia.

Per i colpi di scena e la chiusa invece, va verso La donna del tenete francese di John Fowles, il più cazzuto, sobrio ed ironico: forse il mio preferito tra questi.

Quattro romanzi facili per ragazze, che se volete restare inchiodate sul divano senza sentire i morsi della fame, e poi sotto le coperte fino al mattino cercando di capire come andrà a finire, ecco sono quelli giusti.

Tre su quattro son di ambientazione vittoriana e uno, Ambra, sempre ambientato in Inghilterra ma un paio di secoli prima, vorrà forse dire qualcosa?]

 

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famo a capisse

Piccoli omicidi fra amici, Parenti serpenti, La guerra dei Roses: adoro i film che finiscono male.

Ho detto i film, eh.

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insieme

Non invitarmi fuori a cena, chiedimi di fare una passeggiata.

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vendetta naturale

Era un sabato. Era settembre. Era un giorno di prove al Gran Premio.

Ero a casa del mio migliore amico a far merenda e lui mi aveva appena detto che l’indomani sarebbero arrivati due suoi ex compagni di scuola da Torino per vedere la gara: la cosa mi rendeva un poco felice e un poco no. Un poco felice perché uno dei due lo conoscevo ed era caruccetto, un poco no perché odiavo l’autodromo e il fatto che un tizio bellino ci volesse andare me lo dequalificava completamente.

Franco non era del mio avviso e ci eravamo infilati alla razzomissile in una di quelle discussioni che ogni monzese ha affrontato almeno una volta nella vita: e blabla ma prova un po’ ad andare al parco lunedì e poi mi dici e blabla ma l’autodromo è un pezzo di storia e blabla cazzo me ne frega e blabla cazzo sei solita e solita un cazzo e non capisci niente e no quello sei tu no tu vabbè cribbio è tardi devo andare.

Mentre mi lasciavo mollemente risucchiare dall’ascensore che metteva in comunicazione i quattro piani di distanza tra i nostri appartamenti, elaborai a mio modo la questione e quando arrivai in camera mia avevo già in mano tutta la storia.

Titolo: Vendetta naturale. Svolgimento: era domenica. Era settembre. Era giorno di gara al Gran Premio.

Arrivano a Monza due tifosi torinesi e, mentre stanno attraversando il parco per arrivare all’autodromo, conoscono un paio di gentili signorine del luogo. Il più carino e la più carina si piacciono subito moltissimo, non riescono a trattenere un impeto di giovinil passione e si avvinghiano selvaggiamente nel verde sotto gli occhi degli altri due.

Solo che.

Solo che lei.

Solo che lei non è una vera lei.

Cioè lei è una lei ma non è umana. A ben guardare, ella è una lepre. Una lepre che ha assunto fattezze di donna. Una lepre dotata di molti e forti denti. E mentre lei gli sta praticando una di quelle cose che normalmente si praticano, va un pochetto oltre e glielo strappa via a morsi e lui muore dissanguato tra urla e strazi d’ogni tipo. Lei, svelta, torna lepre e zompetta via nel folto insieme alla sua amica, l’amico di lui resta lì come un salame e viene accusato d’omicidio e si becca l’ergastolo perché nessuno crede a quello che dice di aver visto.

Ritroviamo il poveretto alcuni anni dopo: sepolto nel carcere a vita è diventato un ecopredicatore che, dalla sua cella d’isolamento, ammonisce gli esseri umani dal maltrattare la natura. Fine.

Era un bel racconto, non si può negare: avevo solo anticipato di alcuni anni il genere eco-catastrofistico di Hollywood. Alla The day after tomorrow, per dire: la natura sopraffatta si rivolta contro l’uomo sopraffattore e lo spazza via o, nel mio caso, lo spezza via. Ah ah.

Va bè. Sta di fatto che me lo pubblicarono sulla rivista per cui lavoravo ed ebbe l’indiscutibile pregio di trasformarmi nella ragazzina cannibale della redazione.

[Questo dovevo a Claudia. Questo ho fatto.]

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alcune persone. e le cozze.

Alcune persone, se fossero messe a mollo, renderebbero l’acqua nera, come fanno le cozze.

Che poi, io non so se le cozze rendano l’acqua nera, e non so nemmeno se si mettano a mollo. Non sono una scheggia in cucina, si vede.

Però sono sicura che alcune persone, se fossero messe a mollo, renderebbero l’acqua nera. Come le cozze.

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tu che m’incasini il sonno

Tu, che non hai mai contato nulla per me, perché io ti sogno?

Ti sogno che ci incontriamo in mezzo a un sacco di gente, che ti punzecchio prima, che ti difendo poi. E tu mi guardi.

Tu che non hai mai contato nulla per me, che nemmeno ti conosco e, per quel poco, non mi piaci nemmeno. Mi guardi.

E davvero non mi piaci, non c’è niente di te che mi piaccia.

Tranne forse i tuoi occhi. E la tua bocca. E i tuoi capelli che non ho mai toccato.

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piccola postfazione alle lettere

Se ci sono cose che amo leggere più delle altre, queste sono i diari intimi e gli epistolari. Fra i diari, i più belli in cui mi sia imbattuta quelli di Viginia Woolf, Sylvia Plath, Anna Frank e Keith Haring. Fra gli epistolari quelli di Chopin, Charles Dodgson (aka Lewis Carroll) e poi Le relazioni pericolose, che è un romanzo sì, ma di lettere pur fatto e anche, ma solo un pochino, Possessione della Byatt. Perché adori questo genere di letture non credo sia nemmeno il caso di spiegarlo, tanto è ovvio.

E così ecco questo mio, di epistolario. Poche, graziose letterine frutto di una breve frequentazione fra due giovanotti bennati, fra gli ultimi mesi del ’96 e l’inizio del ’97. Io, nel pieno della mia fase di protoscrittrice porno-casta (pochi mesi dopo avrei più o meno vinto l’unico Premio letterario cui abbia mai partecipato), lui (che ne aveva conquistato un altro alcuni anni prima) di uno o forse due anni più piccolo di me, cosa che mi creava enormi problemi di opportunità (in seguito sarebbe diventata pratica invero comune).

Eravamo assai presi dai nostri personaggi e molto impegnati a esprimere i nostri sentimenti, assai prima che Dawson’s Creek (citazione a fagiuolo, visto che il mio Niccolò assomigliava un pochino a Pacey) rendesse particolarmente fico farlo senza doversene vergognare moltissimo.

Quale fosse poi l’effettiva natura dei sentimenti medesimi, non è dato sapere: non molto tempo dopo l’ultimo “bel papiro”, tutte queste emozioni piccoline hanno avuto il loro prevedibile termine, senza peraltro grande rammarico da ambo la parti.

Io ho sempre preso questi scritti come un meraviglioso esercizio di stile e così chiedo di fare anche a voi. Come è ovvio le mie, di lettere, non le ho più e questo è un bene perché a mio parere lui era bravo abbastanza per entrambi. Ho cambiato solo i nomi e alcuni riferimenti troppo espliciti, per il resto le ho lasciate come le ho lette io quindici anni fa.

PS: a chi legge molto, a chi ha amato Alice, ai misantropi, a quelli un poco come me, mi sento di consigliare la lettura delle lettere di Dodgson: scrittore, enigmista, matematico e fotografo, non necessariamente in questo ordine. Un tipo strano, o forse no. (Possibilmente in questa edizione, se la si trova ancora)

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5 – l’ultima

[dove tutto acquisisce un senso]

In questa prima sera dell’anno nuovo, con una luce notturna blu d’acciaio, ricordi e nostalgie varie mi ronzano in testa.

Cazzo sembra l’inizio di un tema. Pazienza. Riflettendo mi accorgo di non essere riuscito, fino ad oggi, a dirti qualcosa di veramente bello; solo parole anguste, stilemi d’occasione che non riescono a rendere assolutamente quanto grande sia quello che provo per te.

Già nel confessarti queste cose, del resto, mi sembra di essere un’appendice terrestre della dea imbranataggine. Va bè. Non mi era mai capitata una cosa del genere. Potrei fare il romantico e dirti che quando il mio cielo di stelle si era coperto di silenzio sei arrivata tu con la tua luce soave e parlante a mitigare tutto. Ma sarebbe decisamente troppo poco.

Attualmente, per quanto mi riguarda, la pratica va ben oltre la teoria. Nel senso che io sono stato sempre un bastardo spoetizzante, uno che aveva come idolo Enzo Jannacci che cantava Rido, chiude la ditta e rido. E allora, ti chiederai? E allora niente, solo che avere i brividi al cuore e il cervello al tappeto per una ragazza che sta allegra a vedere i fuochi artificiali sotto la neve è qualcosa di così bello che non pensavo esistesse.

Ci sono tutte le premesse, credo, per poter dire che io di te sono proprio cotto, sissignore. E’ per questo che ho anche un po’ di paura. Paura di non piacerti, di stancarti con i miei sbalzi d’umore, con le mie battute idiote. Ma a questi interrogativi puoi rispondere solo tu, o Musa, e io posso al limite svolgere l’influentissimo ruolo della tromba giamaicana nell’Orchestra Occidentale.

Poche seghe mentali e più fiducia in sé stessi, ecco quello che ci vuole. Rileggendo mi sembra che tutta questa lettera possa essere interpretata come un bisogno di essere rassicurato. Se così è, lo è solo in minima parte, il mio intento originario era quello di spiegarti quanto sei importante per me. Non so se ci sono riuscito, del resto lo diceva il Dura che il vero figo non scrive lettere alle ragazze. Si vede che io non lo sono.

Ti voglio bene,

Niccolò

[Ahahah, scherzavo: il senso non arriva nemmeno adesso. Però è l’ultima davvero.]

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